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"PICOLIT", ORO DEL FRIULI

RILANCIO O TRAMONTO DEL PICOLIT

"Giù il cappello! Vi parliamo del Picolit, - così esordì Isi Benini in un suo articolo nel n. 1 della rivista "Il Vino", anno 1971 - l'araba fenice dell'enologia italiana e di quella friulana, in particolare. Oggi se ne discute in tutto il mondo. Dalla California, un giorno di qualche mese fa, è giunto un commerciante di vino con una mazzetta di dollari non svalutati e con il tono sbrigativo dei " business man" d'oltre Oceano. Voleva acquistar il Picolit del Friuli, tutto il Picolit, ed era disposto a pagarlo ventimila lire il litro.
Questa la sua fama. Non usurpata, credeteci. Il mondo dei degustatori e degli intenditori di vino è, oggi, diviso in tre; ci sono quelli che ne hanno sentito parlare, e sono la schiera più fitta, quelli che credono di averlo degustato e infine, che ne hanno centellinato qualche sorso. E in tutti, in eguale misura, è rimasto insoddisfatto il 'desiderio di poter vantare il possesso di una bottiglia, almeno una, di questo magico, raro e delicato nettare.
Ma cos'è il Picolit? Qui il discorso si fa estremamente serio soprattutto perchè le sue origini sono incerte e, di conseguenza, frammentarie e imprecise, o quanto meno vulnerabili dal piacere della polemica, sono le sue caratteristiche. Vogliamo fidarci dei sacri testi? Eccone alcuni saggi: « Ottimo vino bianco, liquoroso naturale, il quale, dopo un congruo invecchiamento si presenta di colore paglierino carico, delicatamente profumato, alcoolico, talora quasi secco, ma spesso anche amabile o dolce, armonico e gradevolissimo: questo il giudizio del professor Italo Cosmo sul secondo volume dei Principali vitigni da vino coltivati in Italia. «Trattasi di un vitigno oggi coltivato soltanto nel Friuli e, purtroppo, in minima parte. »: così il professor Dalmasso in una sua pubblicazione del 1937 che riportava anche il seguente giudizio, espresso, nel 1772 in una memoria di F.M. Malvolti « Il Picolit non soltanto ancor di recente ha potuto gareggiare nella mensa dei Forestieri Signori e Sovrani con i vini dei migliori climi, ma ha potuto, eziandio a nostra gloria, riportarne la palma. Si riferiva a un dono di Picolit fatto dal conte di Montalbano al re di Francia.
Ma veniamo a giudizi, commenti e descrizioni più recenti. Quella del dottor Guido Poggi, nel suo «Atlante ampelografico» del 1939:
« di colore paglierino carico, alcoolico, delicatamente profumato, armonico, asciutto o dolce, un po' molle, di sapore molto speciale, inconfondibile, gradevolissimo, è un vino liquoroso da invecchiamento. E la definizione che ne diede I'indimenticato Marescalchi: « Ha la finezza e gli eteri dei vini del Reno, 1'alcoolicità dei vini meridionali ». E l'amico Luigi Veronelli u Un vino da meditazione!». Ma forse la più singolare e simpatica interpretazione che è stata data di questo stupendo vino è contenuta in un detto sbocciato, forse, da quell'inesauribile sorgente che è la arguzia del popolo: « Non offritelo a una signora o a una signorina -,precisa la raccomandazione rivolta ai buongustai in età - perchè potreste correre il rischio di sentirvi dire di si! ».
La letteratura sul Picolit si perde nei secoli. Esperti e tecnici di tutta Italia (e consentiteci questo peccato veniale di presunzione) lo definiscono, comunque, il miglior vino della nostra penisola. Ma il riconoscimento più ambito, e fors'anche quello che taglia la testa alla polemica e alla contestazione, viene dà una fonte insospettata e insospettabile, cioè proprio dalla Francia, così orgogliosamente gelosa del suo indiscutibile primato mondiale sulla qualità dei vini. Nel catalogo dei principali vini francesi, alla voce « Chateau d'Yquem », che è considerato il più aristocratico figlio della vite di questa terra, è scritto che esso Chateau d'Yquem « assomiglia al Picolit, di origine friulana. Riconoscente, aggiungo che il Picolit, quello vero, s'intende, ha qualcosa in più dello Chateau d'Yquem e sono certo di non essere enologicamente blasfemo: il Picolit è meno aggressivo e certamente più delicato nel profumo dai mille fiori di campo, entra in bocca con una maggiore sfumatura di dolcezza ed ha un retrogusto asciutto, quasi secco, che lascia il desiderio della riprova, pur dall'alto dei suoi 15-16 gradi di alcoolicità. Chi abbia avuto il privilegio di gustare e confrontare i due vini può convenire su un fatto: che cioè il secondo bicchiere del gemello francese del Picolit è difficilmente affrontabile, forse perchè troppo denso, oleoso, glicerinato.
Nella seconda metà del Settecento (e non mi azzardo a citazioni più antiche, quali, ad esempio, quelle che lo vorrebbero far addirittura risalire al tempo dei Romani), questo vino ebbe un « talent-scout » di grande prestigio: il conte Fabio Asquini di Magagna che ne esportava ogni anno centomila bottigliette da un quarto di litro (questa è la sua misura di vendita, signori produttori!) alle corti di Francia, Austria e Russia. Lo ospitava in bottiglie di vetro verde sottile, appositamente soffiate dai maestri vetrai di Murano, e le vendeva a un prezzo che, a calcoli rigorosamente fatti, corrispondeva alle attuali trentamila lire il litro. Sui colli di Fagagna quindi, e non altrove, è nato il primo « boom del Picolit, il cui vitigno è uno dei tre unici nobili di questa terra, con il Refosco dal peduncolo rosso e il Verduzzo. Da questa culla la coltura si è poi estesa ai terreni collinari e pedecollinari di Conegliano dove, però, è scomparso.
Delle sue caratteristiche, variamente interpretate oggi dai produttori, si è detto. Ma la polemica divampa sul suo «mariage» gastronomico. E' un vino da dessert! giura una fazione di esperti. E' un vino che può sposarsi ai formaggi, magari - per contrasto - anche al « gorgonzola »! bestemmiano altri. Dobbiamo decidere con quali piatti debba essere consigliato! aggiungono i «sommeliers ». Nossignori! Nulla di tutto ciò. I1 Picolit è il Picolit e basta. Va bevuto a sé, senza altra compagnia che non sia quella di un'attenzione quasi religiosa, in un silenzioso colloquio, che deve essere gelosamente confidenziale, fra il vino da una parte, la vista, l'olfatto e il palato dall'altra. E ad una temperatura di otto-dieci gradi al massimo. Soltanto così il degustatore potrà onorare questa magica bevanda ed esserne degno.
Dai pregi, tanti e superlativi, ai difetti. O meglio, al difetto. Perchè è uno solo. Cioè la scarsa produttività delle viti di Picolit (e qui non faccio distinzioni fra le due sue varietà, a grappolo piccolo il Picolit giallo, a grappolo grande quello verde). I1 vitigno, come appare da uno zelantissimo studio del dottor Renzo Candussio, direttore degli istituti sperimentali agrari di Udine e di Gorizia, è afflitto da una malattia. L'aborto floreale. Al momento dello sposalizio di primavera, i suoi fiori isteriliscono. II vitigno è sì di forte vigore, di ottima resistenza alle malattie e di ottima affinità coi portainnesti in uso, ma è come una sposa che raramente si riesce a fecondare. I suoi fiori - che si dovrebbero considerare femminili - avvizziscono e cadono. Nove anni su dieci, i fiori fecondati e gli acini ingrossati si riducono a un numero esiguo per ogni raspo. Venti, come massimo, ma anche tre o quattro. Gli altri sono aborti. Di qui la scarsissima produzione e i tentativi che sono in atto da decenni per ridare nobiltà e prestigio a Sua Maestà il Picolit. Con un po' di malignità si potrebbe dire che proprio in questa miniproduzione, e quindi nella conseguente, difficile ricerca, risiede la magia del nettare friulano. Certo che anche la sua rarità gioca nel prezzo e, ahinoi!, nella speculazione. Ma in minima parte. Nella lotta per vincere la malattia che lo illanguidisce si è tentato (con la pazienza di un neurochirurgo) il tentabile. II professor Gaetano Perusini, della Rocca Bernarda di Spessa di Cividale, soffre e gioisce con il vitigno da una ventina d'anni. Qualche risultato hà ottenuto, con una terapia che gli perdoniamo, soltanto in parte, di tenere segreta. Attorno ai vitigni si sono create le condizioni ambientali che gli studi dei tecnici e degli esperti ritengono ideali per evitare l'aborto floreale e la vendemmia tanto desolante. A qualche risultato è pervenuto. E qualche sprazzo di luce è venuto anche da altri studiosi, come il professor Dalmasso. Ma la battaglia è ancora alla fase di scaramuccia.
Intanto le barbatelle di Picolit dai vivai di Rauscedo di Spilimbergo o da quelli di Aquileia, sono richieste in misura sempre maggiore dai produttori di tutta la Regione Friuli-Venezia Giulia. E qui dobbiamo toccare il tasto, delicatissimo, della corsa sfrenata e disordinata per l'incremento, lodevolissimo se fatto con la dovuta serietà e lealtà, della produzione. Lo facciamo convinti di pestare qualche callo e di farci qualche nemico in più. Ma il nostro obiettivo, sul Picolit e sugli altri vini che vogliamo difendere, è quello di un discorso franco, chiaro, senza peli sulla lingua, anche ingrato, forse. Certamente onesto, però. Decine, che dico!, centinaia di piccoli e grandi produttori del Friuli-Venezia Giulia che ho voluto conoscere in questi ultimi mesi, erano disposti a giurare e a scommettere il loro raccolto sull'autenticità e sulla genuinità del loro Picolit. Con l'aggiunta di una strizzatina d'occhio di prammatica, che respingeremo sempre.
La respingeremo perchè fino a quando rimarremo nell'incertezza (come lo siamo attualmente) sulle autentiche, pure, antiche e tradizionali caratteristiche del Picolit, è chiaro che ipocrisia e necessità commerciali porteranno inevitabilmente a dichiarazioni di verginità per lo meno poco caute. Quando non siano spergiuri enologici, come avviene nei casi in cui la mistificazione, i « tagli» sapienti, le storture e i ritocchi sono tanto evidenti da far gridare allo scandalo. Recentemente è stato sottoposto a giudizio un Picolit che non soltanto non era Picolit, ma neppure vino. Intendiamoci. Non si vuole dubitare sull'autenticità dei vitigni, ma non deve legittimarsi un'etichetta di Picolit per il solo fatto che è vino nato da quella vite. Sarebbe troppo comodo e troppo facile! Da qualche anno assistiamo, in Friuli, al trapianto di migliaia di viti di Picolit. E' vero. E sono tutte autentiche. Se ne pongono a dimora nelle colline che sono il loro naturale « habitat » e in pianura. Bene, anche per la pianura! Però facciamo attenzione a non snaturare la qualità di questo eccelso vino. Voglio dire che dovremo tenere nel dovuto conto, e avere il coraggio e l'onestà di denunciarla, la differente qualità del prodotto che non potrà e non dovrà essere reclamizzato, e pagato, con la stessa prestigiosa etichetta del Picolit della collina, l'unico ad avere il diritto a fregiarsi di questa aristocrazia.
C'è, infine, un altro aspetto dell'enigma Picolit che deve essere portato alla luce del sole, e dibattuto. Quello della vinificazione. Sui colli di Savorgnano del Torre e fino a Cividale i produttori si battono contro la vinificazione normale. Dicono, cioè, che i raspi dell'uva di Picolit debbono essere lasciati passire sui tralicci o, quanto meno, sui graticci. Almeno per un mese, un mese e mezzo dalla naturale scadenza della vendemmia. Ne esce un vino dal colore d'oro carico, più accentuato, e dal sapore più marcato, certamente più dolce, caratteri stico, cioè, del vino passito. Altrove, a Spessa di Cividale, a Buttrio, a Corno di Rosazzo, sul Collio, si insiste per la vinificazione normale, al macerato.
Se ne ottiene un vino meno do rato, con sfumature che ricordano il li Riesling o anche il Tocai, con un profumo più caratteristico, senza dubbio, e con un retrogusto più marcatamente asciutto e secco. Gli esperti non si sono ancora pronunciati su questo dilemma. La polemica fra i produttori, e non a soltanto fra i produttori, è esplosa accanto a quella sulla quantità (quante contraddizioni e quanti pareri opposti!) e sulla qualità. E di qui, naturalmente, sul prezzo della bottiglia che registra differenze incredibili: da un minimo di 3 mila a un massimo di 11 mila lire la bottiglia. Vediamo di mettere un po' d'ordine in questo bailamme enologico! Procuriamo, soprattutto, di essere onesti e di agire nell'interesse della collettività enologica del Friuli-Venezia Giulia, ma in - particolare del consumatore, sballottato dai tanti interrogativi, allettato dalla così baldanzosa e facile campagna pubblicitaria che, sotto la prestigiosa bandiera del Picolit consente tante ipocrisie e tante speculazioni. Al con sumatore, ovviamente disorientato, consigliamo la massima prudenza, anche se le eventuali esperienze negative possono considerarsi positive agli effetti di una dimestichezza sempre più consapevole con questo vino. Non è difficile - e dal nostro canto cercheremo di offrire una bussola di chiarezza - identificare i produttori che diano garanzie di serietà. Agli stessi produttori, poi, diciamo di usare le armi della cautela, della prudenza, dell'onestà per fare in modo che questo rilancio del Picolit non degeneri in un suo definitivo tramonto, in una ricaduta che sarebbe peggiore del suo male antico, quell'aborto floreale contro il quale si sta combattendo una vera e propria crociata. A tutti i costi. Anche se si tratterà di arrivare alla creazione di una Confraternita del Picolit composta da esperti e da assaggiatori che siano fuori dalla mischia e che, con un bollino o un marchio, convalidino le bottiglie e le botti dei soli produttori di Picolit disposti a uscire con la faccia al sole. Gli, altri - concluse Benini - non ci interessano. E' la nostra proposta.

Claudio Fabbro,


Gorizia, 25 dicembre 2002

P.S.: dal 2002 ad oggi molte cose sono cambiate; in meglio, ovviamente!
Nel 2006 il Picolit ha ottenuto la DOCG. Nei giorni 12-13-14 ottobre 2007 il vitigno e relativo vino sono stati rivisitati a livello storico, scientifico, tecnico, dalla vigna al bicchiere .
Io stesso ne ho scritto nella pubblicazione 2007 - edita per l'occasione - che riprende ed integra la precedente del 2001, curata dal Consorzio di tutela.
Sarà pertanto mia cura completare anche questa ricerca - che si ferma all'anno 2002 - con documenti e testimonianze raccolte in questi cinque anni e che hanno trovato ampio spazio nel Forum di Cividale

claudiofabbro@tin.it



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