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POLENTE E PURCIT



Partecipando da anni alla prestigiosa rassegna nazionale SUPERWHITES di Roma, che SLOW FOOD organizza di norma nel mese di gennaio , ho avuto modo di conoscere ed apprezzare, insieme a mio cugino Adriano DEGANO, presidente del FOGOLAR FURLAN della capitale e dintorni, vari suoi stretti collaboratori fra cui, in particolare, l'ing. Carlo Mattiussi. Studioso e brillante conversatore, Mattiussi mi ha cortesemente girato copia di alcuni suoi pregevoli interventi che l'appassionato di cose rurali potrà, apprezzare di seguito.
Ieri, con una mail che non avrei voluto ricevere, Adriano Degano mi ha informato che Carlo se ne è andato ; nel mondo dei più (oggi i funerali).
Lo ricorderemo ben volentieri rileggendo due sue memorabili prolusioni ; l'una sulla polenta, l'altra sull' arte della norcineria.

La sua figura viene descritta , in sintesi, da Adriano Degano, come segue.


Ing. Carlo Mattiussi
Personaggio eclettico l'ing. Carlo Mattiussi, nato a Basiliano il 18 agosto 1932. Giunto a Roma con la famiglia del padre, frequenta la scuola media nel prestigioso istituto Massimo dei Gesuiti, fucina dei giovani rampanti della città,. Diplomatosi allo scientifico Cavour, si laurea poi in ingegneria.
Assunto dalla nota società, Federici, diviene direttore dei lavori nei cantieri di Roma, Frascati, Anagni. Passa poi alla multinazionale "Saint - Gobelin", come responsabile della gestione clienti.
Nel 1961 viene chiamato a Milano per frequentare uno stage tecnico di specializzazione, che comportava l'impiego anche in Francia, ove opererà, nei maggiori complessi del gruppo, acquisendo, nel campo, esperienze tecniche manageriali di direzione e gestione di stabilimenti vetrai, che producevano lastre di cristallo, anche colorato, per l'edilizia e lastre di cristallo temperato, riflettente, blindato, a specchio, termo - acustici, nonchè vetro cavo, bottiglie, plasmi, provette ed altro, per uso farmaceutico.
Nel 1963 rientra a Milano come vicedirettore dello stabilimento Corsico e quindi direttore dello stabilimento di Torino. Successivamente dirige il nuovo stabilimenti di Caserta e quindi, nel 1990, rientra a Roma come coordinatore dell'area Centro .- Sud.
Andato in quiescenza nel 1993, si dedica con grande impegno nell'attività, della comunità, friulana di Roma, come vice presidente, collaborando vivacemente per i problemi della Sede sociale. Ha dato un eccezionale apporto alla realizzazione della mostra "50 anni di Friuli a Roma" (aprile 2002), che ha documentato l'importanza ed il ruolo della "presenza friulana" nella capitale.
Ma l'ing. Mattiussi, di spirito arguto, cordiale, aperto, ama approfondire le sue ricerche nel campo dell'enologia, tenendo brillanti e piacevoli conversazioni e battagliando tenacemente per la difesa del "Tocai friulano".



FOGOLAR FURLAN
Gruppo Fradae e Culture

Roma 15 Ottobre 2003

REVERENTI MEMORIE
sulla Illustrissima
Signora Polenta

Conversazione di Carlo Mattiussi

Olio su tela di Otto D'Angelo

Cari Amici buonasera,
certamente tutti avrete avuto modo di vedere, o di leggere, come si fà una polenta; ma dietro un gesto cosi semplice, si nasconde una storia che ha origini molto antiche.
Quando su una tavola imbandita una fumante polenta viene scodellata sul tagliere, non siam più soli, con noi ci sono tanti ricordi ancestrali,misteriosi istinti di conservazione.
Sentiamo l'unità familiare e la forza dell'amicizia, ricordiamo il vento, la neve, il freddo l'antica fame, risentiamo il crepitio del fuoco e riscopriamo il bisogno di rimanere uniti intorno a questa gialla "luna" che si fà cibo. Sono sensazioni antiche che, ad esempio, un piatto di spaghetti, che pure porta in tavola una grande allegria, non ci fà sentire.
La polenta, intesa come una pietanza a base di farina cotta nell'acqua, è vecchia quanto l'umanità, ed ha la stessa età del fuoco e della creta. Quando i primi uomini, aggregati in gruppi, misero sul fuoco la prima pentola di terracotta, in quel momento nacque la polenta, fatta coi semi macinati che le donne avevano raccolto durante il giorno.
Nei geroglifici delle prime tombe egizie, 5000 a.C., sono raffigurati dei servi intenti a macinare, e poi cuocere in acqua, cereali. Ma è con i romani che si hanno notizie certe sull'uso alimentare della polenta; infatti la parola "polenta" ha origine latina; "puls" dal greco"poltos"-poltiglia-(e ancor oggi la polenta tenera si chiama "pols" nel bergamasco e "pult" in brianza). Fin dai tempi di Numa Pompilio si cuocevano e scodellavano polente di avena, di farro, di miglio, di ceci o di fave, di sorgo e di spelta che si condivano con latte, formaggio, carne di agnello, oppure con salsa acida e sughi.
Plinio, lo storico di Roma, nella sua "Naturalis Historia" scrive che i Romani si sono nutriti per lungo tempo di polenta, prima di mangiare pane.
Apicio, il ricco crapulone che si mangiò in pranzi un patrimonio colossale e quando lo vide ridotto a un miliardo solo, si uccise ritenendosi caduto in miseria, ebbene Apicio, nel suo libro "De re coquinaria" nel quale ci ha tramandato molte ricette dell' antica Roma, ci parla diffusamente della polenta consumata dai romani, descrivendoci anche la ricetta di un tipo di polenta chiamata "puls iuliana", friulana o veneta, da cui pare derivi la polenta "pasticciata" tipica del Friuli.
La polenta era diffusa in tutto il Mediterraneo, e Apicio ci descrive dettagliatamente anche la "puls punica" molto apprezzata a Cartagine, fatta con farina di grano duro impastata con formaggio fresco, uova e miele. I Cartaginesi ne erano talmente ghiotti, che i Romani li sfottevano chiamandoli "pultiphagus" cioè "polentoni". Elogiarono la polenta, personaggi come Plinio e Ovidio, Galeno e Apicio; Seneca scrisse addirittura " c'è l'acqua e la polenta: possiamo gareggiare in felicità con Giove."
La polenta di farro e le torte di farro, continuarono la loro fortuna anche nei secoli successivi fino al Rinascimento. Alla fine del 1400, Bartolomeo Platina, scrittore gourmet, nel suo"De honesta voluptate et valitudine" riporta una ricetta di torta di farro, creata da Martino da Como- cuoco del Patriarca di Aquileia, che ha come base una polenta di farro, cotta nel brodo grasso di cappone, disposta poi in una teglia, a strati alternati farciti con un sugo fatto con formaggio, carne di maiale, spezie, zucchero, uova, zafferano, e a fine della cottura, spruzzata di zucchero e acqua di rose. E' certo, una polenta strana per i nostri gusti, con il contrasto tra sapori speziati e dolci.
Ma sulle consuetudini alimentari della vecchia Europa stava per irrompere, con la forza di un ciclone, un nuovo cereale che farà decadere, perchè più gustoso, l'uso di tutti i cereali precedentemente impiegati nell'alimentazione; il Mais, sconosciuto agli europei, e portato in Spagna da Colombo nel 1493 al ritorno dal suo primo viaggio nel Nuovo Mondo.
Il nome mais deriva dal termine "mahiz" (come lo trascrive Colombo, indicando il nome con cui la pianta veniva chiamata dagli indigeni dell'isola Hispaniola).
Per le popolazioni dell'America centrale, il mais era fonte di vita perchè costituiva, con i fagioli neri e la patata, la base dell'alimentazione e veniva consumato accompagnato a verdure, carne e pesci. Dal mais essi ricavavano quanto abbisognava alla loro sopravvivenza: con i gambi e con le foglie delle piante coprivano le loro capanne, con i torsi governavano il fuoco, dalla fermentazione dei grani e delle barbe ottenevano zucchero e una bevanda molto alcolica, la "Chicha". Dai grani macinati ricavavano farina per fare "tortillas", olio per condire e cuocere e, lessati o abbrustoliti, i grani erano il contorno di carni e pesce. Tutta l'economia di queste popolazioni era, dunque, strettamente legata all'agricoltura e lo stesso loro calendario era basato, proprio sulla coltivazione del mais.
L'importanza di questa graminacea, per le popolazioni Atzeca, Maya e Incas, è inoltre sottolineata dal culto riservato ad alcuni dei, legati direttamente alla sua coltivazione. Questi popoli erano talmente ossessionati da una improvvisa scomparsa del mais, che divenivano crudeli e, ritenendo che nel sangue fosse racchiuso il debito agli dei, sacrificavano uomini, donne e bambini pur di ingraziarsi la dea della fertilità.
Ai primi "conquistadores" che sbarcarono sulle loro spiagge in cerca di tesori e ricchezze, gli indigeni offrirono, non l'oro e le gemme che gli spagnoli speravano di trovare, ma grandi pannocchie di giallo mais. Cristoforo Colombo annoterà nel suo diario che "c'erano grandi campi coltivati a "grano indiano" e la gente viveva di esso" e descrive il mais come "il frutto di una pianta alta, mai vista e..."con la barba"
Si racconta che quando Colombo il 20 aprile 1493, al ritorno del suo primo viaggio, si presentò, da trionfatore, ai Reali di Spagna col suo pittoresco seguito di indiani piumati che portavano ceste d'oro, pappagalli colorati, pannocchie e grani di mais, molti notabili soppesarono curiosi quei grani: li credettero d'oro. Informati da Colombo che quello era un grano di cui i popoli delle Indie si cibavano in abbondanza, incaricarono i loro botanici di seminarlo nei giardini della reggia per ottenerne piante ornamentali.
Passeranno degli anni prima che il mais inizi a essere coltivato sperimentalmente negli orti botanici dei conventi e delle Università spagnole Le prime coltivazioni di mais nei campi, si ebbero in Andalusia, trentanni dopo la scoperta dell'America, per opera di agricoltori di origine araba che lo usavano come mangime per gli animali; giacchè in quegli anni, all'uso alimentare del mais, ci furono vari impedimenti e pregiudizi, persino "teologici". La Chiesa riteneva che i cristiani dovevano cibarsi esclusivamente di frumento, che dà il pane eucaristico, e considerava il mais, un cereale da pagani Invece, col tempo, la coltivazione di un cereale che maturava in tre mesi e non richiedeva l'uso dell'aratro, indusse gli spagnoli ad apprezzare la farina di mais e a diffonderlo in Europa Gradualmente, dal golfo di Biscaglia, la coltivazione del mais si espande, nel XVII° secolo, in tutta Europa e si svilupperà lungo una fascia ben precisa che va dal Golfo di Biscaglia al Caucaso, attraversando la Spagna, la Francia, l'Italia del Nord, l'Austria, la Germania, e tutti i paesi lungo il Danubio, fin all' Ucraina e al Caucaso. Più a nord, il clima era troppo freddo, più a sud troppo secco.
L'alta redditività, il basso costo di produzione e la rapidità del ciclo vegetativo, soli tre mesi, decretò il successo del mais che incominciò ad essere per gli europei, quello che era stata ed era per le popolazioni precolombiane: Un Dono degli Dei.
Nel frattempo i Portoghesi, dopo la conquista di Vera Cruz, a fine aprile del 1500, introducono il mais nella madre patria, dove non verrà mai eccessivamente gradito; mentre sarà molto apprezzato nei loro possedimenti lungo le coste occidentali dell'Africa, dove diverrà la prima coltivazione delle popolazioni locali Nel XVI secolo l'Europa è attraversata da guerre, pestilenze, carestie per cui le popolazioni affamate e prostate troveranno nel mais, cereale ad alta redditività e dal costo di produzione inferiore di oltre il 50% rispetto al grano, la soluzione per risollevarsi dalle privazioni subite. Il generoso cereale ha oramai conquistato la maggior parte delle aree agricole del continente europeo, e si sta diffondendo anche nel vicino oriente, con la rara caratteristica di essere gradito a popolazioni dalle più disparate abitudini alimentari, venendo utilizzato anche come mangime per gli animali, soprattutto per quelli da cortile, che risulteranno cosi più gustosi, sani e pregiati.
E' curioso notare come il mais assumerà nomi e definizioni diverse a seconda delle regioni in cui andrà affermandosi.
Per cui i portoghesi lo chiameranno "spiga del Portogallo" nei Pirenei sarà "grano di Spagna" in Francia "grano d'India" in Toscana "duro di Siria" ma il nome più ricorrente sarà "granoturco" usato oltre che in Italia anche in Olanda e in Germania, mentre che in Russia si userà la parola turca "kukurù". In compenso però i turchi, che sanno benissimo di non aver nulla a che fare con questo cereale, si limiteranno a chiamare il mais "grano dei Rom" cioè degli infedeli.

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