La Polenta di mais e il Friuli
"A je une robe, li su le brèe, che clame dongje dute le famèe"
C'è una cosa, li sulla tavola che raduna tutta la famiglia
La polenta è il cuore della casa friulana, il simbolo popolare della sua cucina; qui si sono sperimentate tutte le variazioni
gastronomiche possibili della polenta.
Il Friuli è stata una terra vocata a grandi esperimenti sul mais e sui suoi ibridi giacchè, sin dal primo apparire, questo
cereale, formò con questa Regione un binomio inscindibile.
Le prime notizie certe dell'arrivo del mais in Friuli, le possiamo ricavare dal "Listino delle merci" quotate al mercato di
Udine; Il mais vi compare per la prima volta in data 17 settembre 1622, con il nome di "sorgo turco" e viene venduto a lire
7 lo staio. Nell'Archivio della Curia Vescovile di Udine c'è un documento che anticipa di venti anni questa data; come
attesta una "sfilza" che porta la data del 20 marzo 1602 (le "sfilze" erano dei foglietti di carta scritti a mano, che
venivano infilzati l'uno sull'altro su un ferro appuntito e riportavano le quotazioni giornaliere delle merci del mercato di
Udine).
Per combattere la pellagra, il contadino friulano ha una alimentazione basata su alcuni piatti semplici, gustosi e soprattutto
efficaci. Infatti, la sua colazione del mattino era - polenta e latte-, dove le molteplici vitamine e i sali minerali presenti
nel latte integravano le carenze della polenta; a mezzogiorno e alla sera mangiava,- polenta e frittata o formaggio- e anche
qui le proteine e i grassi delle uova o del formaggio, integrano il modesto apporto nutrizionale della polenta, mentre alla
domenica il suo pranzo era a base di polenta accompagnata a carne di maiale o, in tempo di quaresima, all'aringa o al baccalà.
Una alimentazione semplice, povera, ma sufficiente.
La polenta è, dunque, il piatto tradizionale dei friulani; una volta in ogni famiglia, per consuetudine al calar della sera,
si preparava la polenta per la cena.
Quando io ripenso ai profumi e ai sapori della mia infanzia, risento ancora il profumo della polenta e della "fertae"- la
frittata, la cena che mangiavo d'estate, da mia nonna.
La preparazione della polenta ha in Friuli, gesti, ritmi e consuetudini sacrali; gli strumenti indispensabili per la cerimonia
sono tre: un paiolo di rame con un fondo spesso, un cucchiaione di legno dotato di un lungo e robusto manico per girare la
polenta ed evitare che si formino i grumi di farina , il filo di cotone per tagliarla a fette, una volta cotta e versata sul
tagliere.
Mia nonna iniziava la celebrazione tracciando un segno di croce sulla pentola dell'acqua bollente e la cerimonia terminava
con un altro segno di croce sulla polenta fumante sul tagliere, prima di essere divisa, col filo in fette regolari e subito,
la polenta riempiva la casa del suo profumo.
Io, bambino di cinque, sei anni, attendevo impaziente di gustare "lis crostis", cioè le croste di polenta che rimanevano
attaccate alle pareti del paiolo, dopo che la polenta era stata rovesciata sul tagliere.
Queste sono le mie "reverenti memorie" di un rito, oramai non più celebrato quotidianamente, ma divenuto occasionale e
relegato alla cucina rievocativa della tradizione.
Altro momento di gioia e di festa per me, era alla fine di agosto, quando
avveniva la festa della "sfogliatura". Le pannocchie trasportate dai campi con i carri, erano ammucchiate sull'aia, dove
tutti, anche i vicini, davano una mano a "scatossà" a liberare, cioè le pannocchie dalle foglie. Noi bambini ci stancavamo
presto di aiutare e, allora, ci divertivamo a ruzzolare nel mucchio delle foglie croccanti, mentre i grandi parlavano a
voce alta, ridevano o cantavano fino a tarda sera, allorchè noi piccoli eravamo già addormentati. Della pianta del mais, in
Friuli, si utilizzava tutto; con i "scartosc" (le foglie della pannocchia) ben essicate, si riempiva il "paion" (il materasso)
oppure venivano intrecciate per farne cesti o sporte, i torsi delle pannocchie sgranate venivano bruciati nei camini o nelle
cucine economiche mentre i fusti secchi della pianta, oltre che essere bruciati venivano utilizzati per costruire recinti
di orti o tettoie. La farina di mais più usata era quella gialla perchè, mia nonna diceva, che quella bianca faceva venire
l'anemia., ma ancor oggi, persistono opinioni differenti su quale delle due sia la migliore.
La polenta friulana è sensibilmente diversa da quella veneta per la sua consistenza, che la fa più somigliare a quella
bergamasca. La polenta veneta è più tenera e, rovesciata sul tagliere, si espande rimanendo semisolida e bassa; quella
friulana, invece, è più consistente e quando viene versata mantiene la forma alta del paiolo. Il consumo di questa pietanza
è diffuso in tutto il Friuli e, fino a qualche decennio fa, costituiva uno dei piatti base dell'alimentazione quotidiana.
Oggi questo mondo non esiste più.
La rete di distribuzione del metano, che sin dagli anni 70 si è ramificata capillarmente in tutta la regione, ha portato alla
rottamazione delle cucine economiche che usavano il fuoco a legna per la cottura dei cibi. Ora la polenta, come tutti i cibi,
viene cotta sul gas e, sempre più spesso, si usano farine precotte per abbreviare i tempi di cottura.
In sostanza, sono mutati i tempi e anche le abitudini alimentari sono, in questi anni, rapidamente cambiate; la povertà
nutrizionale della polenta non è più temuta, perchè sulle tavole del Friuli di oggi, c'è grande varietà di cibi. C'è solo
l'imbarazzo della scelta.
Dalla cucina povera, alla cucina golosa
Il mais è stato per lungo tempo ignorato dalla cucina dotta e ricca del ceto medio e benestante, ed è accolto con scarso
entusiasmo anche negli "herbari" le prime rudimentali raccolte di erbe medicinali e del loro uso officinale.
Nel 1536 compare una scarna citazione del mais, in quello del francese Jean Ruel e successivamente nel 1542 in quello del
tedesco Leonhart Fuchs che lo chiama "grano turco " e, precisando che si trova in Germania in tutti gli horti" ci offre il
primo disegno della pannocchia.
Francois Rabelet, (1594.ca-1562) come sempre attento ad includere ogni novità nel menù che il cuoco Maschecroutte prepara
per Pantagruel, non mancherà di presentare il mais sia tra le zuppe sia tra i legumi, chiamandolo rispettivamente "millet"
e "millorque" (farina di mais cotta nell'acqua secondo l'uso della Vandea, assai simile alla "millasse" del Mezzogiorno
francese).
"Il cuoco galante" del monaco-gastronomo Celestino Vincenzo Corrado, stampato a Napoli nel 1773 nel capitolo "delli timballi"
afferma " si faccia cuocere nel brodo di cappone condito di butirro, farina di "grano d'India", mescolata con poco
parmigiano, quindi cotta, freddata e tagliata a fettoline si accomoderà nella cassa di pasta tramezzata di parmeggiano,
butirro e panna di latte e, cotta la pasta si servirà calda".
Solo a Venezia, Goldoni poteva scrivere questo monologo di Rosaura ne "La donna di garbo" Rosaura descrive ad un Arlecchino
affamato, la succulenta polenta che avrebbe preparato per il giorno delle loro nozze.
Vi racconto la scena; Arlecchino è semiaccasciato su una sedia e ascolta sognante, ad occhi chiusi, Rosaura che recita ".
Empiremo una bellissima caldaia d'acqua e la porremo sopra le fiamme. Quando l'acqua comincerà a mormorare io prenderò quella
polvere bellissima come l'oro, chiamata farina gialla e poco a poco anderò fondendola nella caldaia nella quale tu, con
sapientissima verga, andrai facendo dei cerchi e delle linee. Quando la materia sarà condensata, la leveremo dal foco e tutti
e due, di concerto, con un cucchiaio per uno, la faremo passare dalla caldaia al piatto. Vi cacceremo sopra poi, di mano in
mano, un' abbondante porzione di fresco, giallo e delicato butirro, poi altrettanto grasso, giallo e ben grattato formaggio"
-E poi?- chiede Arlecchino..- "e poi Arlecchino e Rosaura, uno da una parte e l'altro dall'altra, con un cucchiaio in mano
cadauno, prenderemo due o tre bocconi in una volta di quella ben condita polenta e ne faremo una mangiata da imperatore.
- E poi?- insiste Arlecchino -e poi preparerò un paio di fiaschi di dolcissimo e preziosissimo vino e tutti e due ce li
goderemo sino all'intera consumazione e Arlecchino / estasiato / le sussurra "Oh! tasi / cara, che ti / me fai andare in
deliquio".