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La storia della gastronomia porcina:
Sfogliando le pagine di letteratura antica, si scopre come il maiale sia entrato nell'alimentazione dell'uomo; esaminiamo quindi la presenza del maiale presso popoli storicamente a noi più vicini:
Il maiale occupava un posto importante sulle tavole della antica Grecia, dove il consumo della carne porcina viene stimato nell'ordine di 1-2 Kg pro capite/anno.
Omero nell'Iliade ci parla, più volte, del maiale del quale cita il "pingue e saporoso tergo di ben sagginato porco." Ancora nell'Odissea dopo aver precisato che: " a tavola ci si siede non per mangiare, ma per mangiare insieme in allegria" ci descrive come viene cucinato: "il porco viene bollito in grandi calderoni, su treppiedi alimentati a fuoco vivo". Emmeno, dopo aver cotto il maiale lo divide in sette parti, il 7 è un numero sacro ed importante che ritroviamo anche presso i Romani nei Saturnali feste che duravano sette giorni. Una di queste parti le offre alle Ninfe e al figlio di Maia, Ermes, le altre le distribuisce ai commensali. Ma l'intera schiena del porco dalle zanne bianche, di cui l'arista è la parte migliore, è riservata ad onorare Odisseo. In un altro canto, descrive il pasto del porcaro che:" avvolge i bocconi più delicati nell'"omento", le reticella di maiale, per poi arrostirlo allo spiedo.

Passerò ora a parlarvi degli Etruschi, antico popolo dell'Italia centrale che si era stanziato dall'8° secolo a.C. tra Arno e Tevere, tra mare Tirreno ed Appennini, ma anche nella parte meridionale della Valle Padana e in Campania. Essi ci hanno lasciato preziose testimonianze sui maiali; ne è un esempio una scena raffigurata su una "situla". d'argento.( la situla è un vaso a forma di tronco di cono, quindi più stretto in basso e più largo in alto) proveniente da Chiusi nel Senese.
In quella scena il porcaro trascina, a suon di musica, un branco di suini lungo le rive del Tirreno, in compagnia di un cane che ne controlla gli spostamenti e sollecita i ritardatari. Questo documento testimonia la diffusa tradizione etrusca dell'allevamento del maiale su larga scala, con l'impiego di un addetto che in qualche maniera li governa e li gestisce. A conferma della considerazione che gli Etruschi avevano delle carni suine, vi citerò un brano: " Presso i Tirreni si apparecchiano mense sontuose due volte al giorno con teli variopinti e coppe sontuose e vengono serviti porci arrostiti interi o già divisi nelle varie parti" questo scriveva il filosofo Posidonio di Apamea, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., descrivendo le terre di Etruria, comunemente ritenute dagli scrittori greci e latini, le terre più fertili dell'Italia antica.
La certezza della notevole diffusione del maiale in Etruria ci viene anche dalla copiosa documentazione archeologica pervenutaci. Questa diffusione era dovuta alle particolari condizioni climatiche dell'area, ma anche alla conformazione del territorio, coperto di boschi e di querceti con abbondanza, quindi, di ghiande e bacche, alimenti prediletti di questi animali. La statura e il peso dei maiali di quell'epoca era inferiore rispetto a quella attuale, ed anche il muso del maiale era piuttosto allungato, dandogli cosi un aspetto più simile al cinghiale, non per nulla chiamato anche maiale selvatico. Il suo peso, allora e per molto tempo, non superava gli 80 chili, dato che viveva tra i boschi e camminava molto per procurarsi il cibo, con una resa di 50 chili.
Il grande successo di questo animale era dovuto a due fattori determinanti: 1) il suo allevamento non richiedeva l'intervento quotidiano dell'uomo. 2) del maiale si sfruttava ogni cosa: la carne, il grasso, il sangue e le interiora in cucina,- la pelle e i tendini per l' illuminazione - le ossa per ricavarne strumenti, ma anche ornamenti per le donne.

MATTIUSSI e COLOMBA, Roma, 2005
MATTIUSSI e COLOMBA, Roma, 2005

I Romani seppero ben apprendere l'arte greca di apprezzare le carni suine e presto superarono i maestri ma poichè la loro cultura, come quella greca, era sacrificale non potevano trasformare un animale in cibo, se non dopo averlo immolato ritualmente. E' la ragione per cui le carni, sulla tavola romana, avevano una presenza minore rispetto al pesce.Comunque già nella 1° Repubblica, avevano costruito un Foro boario e un Foro suinario e nel 449 a.C. erano state aperte le macellerie. A Roma si macellavano pochi buoi e vecchi, perchè gli animali giovani venivano utilizzati nei lavori dei campi.Una legge sanciva la pena, che poteva andare da un'ammenda fino a tre anni di carcere e per i recidivi prevedeva l'esilio, per chi macellava un bue non ammalato; pertanto la carne di questi animali vecchi, risultava dura e, dopo i vari procedimenti di conservazione, ancora più dura. Da questo problema nacque la necessità di bollire la carne prima di arrostirla, per renderla più morbida e gustosa.
Per tutti questi motivi, il maiale divenne l'animale più utilizzato per i sacrifici. Anche se la carne consumata dai romani proveniva dai riti, non tutta quella di maiale distribuita al popolo di Roma era stata abbattuta in un contesto sacrificale.
Infatti già dal 208 - 235 d.C. durante il regno di Severo Alessandro, si iniziò a distribuire gratuitamente alla plebe romana, insieme al pane e all'olio, carne di maiale.
Tale consuetudine viene continuata da Aureliano, tra il 270 e il 275 d.C, il quale ne concedeva 5 libbre a testa, almeno per cinque mesi l'anno, che corrisponde ad un pasto per una settimana. Uno sforzo considerevole se si considera che la libbra aveva un peso tra i 400 e i 500 grammi e che gli abitanti interessati al provvedimento erano 317mila. Il maiale era cibo apprezzato sia dai ricchi che dal popolo, il suo consumo divenne cosi massiccio che, preoccupato per l'estinzione della razza porcina, l' imperatore impose leggi censorie per porre freno alla strage.
La fantasia gastronomica dei crapuloni romani toccò, però, il suo apice nelle grandi portate che segnavano il culmine spettacolare d'ogni banchetto degno di questo nome.
Petronio Arbitro nel suo Satiricon descrive gli onori riservati al maiale nella grande cena di Trimalcione.
"Ecco, tra gli antipasti, una graticola d'argento sulla quale profumano calde salsicce.
Seguono altre portate, finchè compare un grande trionfo, a forma circolare.
Esibisce la sequenza dei dodici segni zodiacali con i cibi corrispondenti.
A sottolineare una spiccata predilezione dei buongustai romani, la vulva di una scrofetta è delicatamente posata sul segno della Vergine. Il piatto è appena ammirato che già quattro servi tolgono la parte superiore per mostrare un'interno non meno spettacolare, al quale contribuiscono ventresche di scrofa, semisepolte tra pollame. Tralasciamo il cinghiale che segue e riprendiamo con il secondo corso, a mense riordinate. Racconta il narratore Encolpio: " a suon di musica, vediamo entrare nel triclinio tre maiali bianchi, ornati di museruola e di campanellini, l'uno dei quali, a quanto diceva il nomenclatore, aveva due anni, l'altro tre e il terzo sei...."Quale di questi maiali volete ci sia servito in tavola?...ci domandò Trimalcione.....Fece chiamare subito il cuoco e, senza aspettare la nostra decisione, gli ordinò di ammazzare il più grosso". Non trascorre molto tempo" quando un'enorme piatto con sopra quel gran maiale invase tutta la tavola. Noi cominciammo ad ammirare la sveltezza del cuoco ed a giurare per tutti gli dei, che non si sarebbe potuto cuocere cosi in fretta nemmeno un pollo, tanto più che quel maiale ci sembrava più grande del cinghiale che l'aveva preceduto, quando Trimalcione, dopo averlo esaminato bene, esclamò:" Che diamine!
qusto porco non è stato sventrato. E toccatogli la grossa pancia con un dito, gridò:
No perercole! Chiamate subito il cuoco". Giunge il cuoco e ammette subito la sua colpa. Sta per essere punito, ma i conviviali gli ottengono grazia e Trimalcione ordina, in una risata: " Visto che hai cosi cattiva memoria, sventralo subito qui davanti a noi". Prosegue Encolpio:"Tutto tremante di paura, il cuoco si rimette la tunica, prende un coltello e taglia quà e là il ventre del grosso maiale. E immediatamnte dalle incisioni scappano fuori, come ci fossero stati spremuti, una sfilza di salsicce e sanguinacci. Risuonano gli applausi e i complimenti per un cosi abile gioco di prestigio. Il banchetto prosegue, si aprono le danze e gli spettacoli per permettere il cambio delle mense. Nel mentre vengono serviti pasticcini alternati a dolci e frutta, finchè Encolpio si colma d'orrore nel veder apparire " un piatto cosi mostruoso che si sarebbe morti di fame piuttosto che assaggiarlo. Quando lo servirono aveva tutta l'apparenza di un'oca ingrassata circondata e guarnita da pesci ed uccelli di ogni sorta; ma Trimalcione ci avverti subito:" Tutto quello che vedete in questo piatto è fatto di una sola sostanza": e il nostro narratore continua."Io sempre furbo, indovinai di cosa si trattava e voltomi al mio vicino commensale: ' Mi meraviglierei, davvero, dissi, se questa roba non fosse di fango o tuttalpiù di argilla. A Roma, durante i Saturnali, ho visto fare in questo modo delle cene per burla.' Ma non avevo ancora finito il mio parlare quando Trimalcione riprese:"Cosi tu possa ingrossare- voglio dire in quanto a quattrini e non a pancia- com'è vero che il mio cuoco ha fatto tutto questo con un' intero porco. Non c'è uomo più prezioso di lui. Non hai che a volere e ti fa un pesce da una vulva, da un pezzo di lardo un colombo, da un prosciutto una tortora, da una pancetta una gallina. Per questo gli ho dato un bellissimo nome di mia invenzione: si chiama Dedalo."
E' in queste presentazioni, che oggi definiremo "sceniche" che i cuochi dell'antica Roma primeggiavano.La carne di maiale diventava nelle loro mani plastica creta, suscettibile di ogni forma, per la maggior spettacolarità dei loro trionfi.
Le dispense dell'antica Roma si riempiranno di salsicce, di insaccati, di carni salate e affumicate. Questi due ultimi trattamenti delle carni, il sale e l'affumicatura, erano dettati dalla necessità di conservare la carne il più a lungo possibile; ma questi trattamenti davano alla carne degli animali commestibili, una caratteristica di durezza e di odore di stantio che non erano certo gradevoli.
Queste nuove preparazioni delle carni, apprese dalle polazioni della Gallia, completavano quelle che avevano, fino ad allora, accompagnato lo sviluppo della civiltà: Primo l'arrosto o grigliato, poi il lesso- la carne cotta nel brodo, ed infine lo stufato- la carne cotta nel suo sugo.
Il maiale, cibo della plebe e del'aristocrazia, nelle taverne della Roma antica era servito sotto forma di sanguinacci, testine bollite e spezzatini grassi. Nelle occasioni di festa, cene e conviti, i Patrizi preferivano gustare dei bocconi prelibati che erano costituiti da mammelle e vulve di scrofa. Questi parti del maiale, essendo legate alla fertilità in quanto organi sessuali e riproduttivi, erano considerati cibi dotati di virtù terapeutiche e con un significato beneaugurante contro il malocchio.
Le tettine di scrofa, gustate dai romani in vari guazzetti, sono citate anche da Plinio che sostiene: "sono migliori le tettine di scrofa che non ha mai allattato e che hanno un solo giorno di frollatura." Un' altra parte del maiale molto ambita, era quella del ventriglio, considerata dagli antichi una vera leccornia. Lo stomaco del maiale farcito è una ricetta che risale addirittura al Paleolitico, epoca nella quale lo stomaco degli animali addomesticati costuiva una casseruola naturale, nella quale venivano cotti ritagli di carne e di interiora, miste al sangue che si rapprendeva con la cottura. Lo stomaco, essendo elastico ed impermeabile, cuoceva il suo contenuto garantendo un ottimo umido. Sia Galeno, filosofo e medico greco che visse a Roma, che Apicio il ricco crapulone che si mangiò in conviti e feste un patrimonio colossale, ci hanno lasciato molte ricette sul come cucinare il maiale con abbinamenti di salse e spezie, il cui sapore, per il nostro palato odierno, sarebbe immangiabile.
Di Apicio, vale la pena di ricordare anche la sua grande invenzione, il fegato grasso. il "fois gras" tanto amato dai francesi, che per primo aveva ottenuto ingrassando con i fichi secchi sia i maiali che le oche. Ma il vero inno al maiale lo scrisse Plinio affermando: " nessun animale fornisce più godimento alla gola, avendo il maiale cinquanta sapori diversi, mentre gli altri ne hanno uno solo."

Il maiale, quindi, godeva di grande considerazione presso i romani e, per darvene testimonianza vi parlerò di una festa. I Saturnali una delle feste popolari e religiose, più diffuse nella Roma antica che si celebrava ogni anno dal 17 al 23 dicembre, in onore di Saturno, che era il dio romano della semina. Era una festa che per il carattere dei festeggiamenti ricorda il nostro carnevale, che probabilmente ne è derivato, essa si svolgeva nel solstizio d' inverno e quindi può anche essere comparata al nostro ciclo festivo di Natale e Capodanno.
La mitologia romana favoleggiava che Saturno fosse stato il dio dell'età dell'oro quando gli uomini vivevano felici nell'abbondanza ed erano uguali fra di loro, con i giorni dei Saturnali si voleva rievocare le condizioni di quel tempo fortunato.Cosi che si festeggiava con convitti e banchetti, concedendo agli schavi la massima libertà di partecipazione, nel ricordo appunto dell'antica eguaglianza fra gli uomini. Questa festa si diffuse in tutto il mondo romano, ed in ogni provincia dell'Impero rimase, fino alla diffusione del Cristianesimo, la festa popolare più amata dalle genti di ogni condizione sociale.La festa del dio Saturno, era registrata nel calendario romano il 17 dicembre e la sua celebrazione coincideva con la macellazione del maiale.
In quei giorni i ricchi solevano fare grandi scorpacciate di carne suina, soprattutto se era preparata con i fichi. Si erano andati cosi creando dei collegamenti tra il maiale ed i Saturnali , dei quali ci è stata tramandata notizia da numerosi testi letterari.
Ne è un valido esempio questo testo, scritto tra il 339 e il 402 d. C., "Il Testamento del Porcello"( vedi All.). Era la lettura prediletta dagli scolari romani, documento importante che sembra presentare precisi legami con i Saturnali. Il documento contiene elementi comici e mordaci che sono la salsa piccante della composizione, il testo all'inizio è semiserio, poi si avvolge nel sugo dei condimenti e dei nomi allusivi dei sette testimoni chiamati ad avallare il documento. Si tratta in effetti di una burla che vuole evidenziare la somiglianza tra il maiale e l'uomo, tra la cucina speziata e le pratiche di imbalsamazione. La favoletta recita che tal Grunnio Corocotta, pocello, deve esser messo a morte: Vista la fine imminente, implora ed ottiene di far testamento.
L'esercizio sarà appunto la lettura dell'epigrafe testamentaria che milioni di alunni ancor oggi traducono con piacevoli sghignazzi.
Datare il testo è arduo. Basti però dire che il faceto esercizio già correva sui banchi di scuola del IV secolo. E' buon testimone San Gerolamo: visse dal 347 al 420 facendo penitenza nel deserto e traducendo le Sacre Scritture in quel latino che poi diede origene alla Volgata. L' esercizio doveva essergli rimasto ben impresso, perchè, per quanto immerso nelle sacre cose, volle farne menzione al discepolo Eustare, in una delle lettere che gli inviò. Da tanta autorità travasò in ogni programma di studio di latino fino al secolo scorso ed, ancor oggi, ha qualche cultore di tali giochetti.


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