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I Barbari e il nuovo modello di alimentazione

L'irrompere nella pianura padana di popoli, che i romani chiamavano barbari, di etnie variamente mescolate, ma perlopiù di ceppo germanico, segnò non solo la fine dell'Impero romano nella sua parte occidentale, ma anche la crisi di un modello di civiltà. I Romani, sulla scorta della tradizione del modello greco, avevano costruita la loro civiltà attorno a due nozioni: quella di città e quella di agricoltura che avevano a fondamento la volontà di separare l'uomo civile dallo stato selvatico, dotandolo di un apporto abitativo e produttivo artificiale, non esistente in natura.
Il pane, il vino e l'olio, le basi del modello alimentare greco e romano erano i simboli di una costruzione ideologica che contrapponeva cultura e natura, come valori rispettivamente positivo e negativo. I popoli che seguivano modelli diversi, erano barbari; per questo gli scrittori greci e latini insistono sul ruolo centrale del regime alimentare dei popoli germanici. Essi hanno una alimentazione basata sulla carne e sul lardo, il latte e il burro e i frutti selvatici, ossia le risorse della foresta usata per pascolo brado del bestiame, per la caccia e per la raccolta di legna, di bacche e di frutti.
I barbari, poco a poco, entrarono nei confini dell'Impero, s'impadronirono di gran parte delle sue provincie fino a diventarne, a partire dal V° secolo, il nuovo ceto dirigente.
Imposero i loro modelli di vita, fronteggiandosi con i preesistenti modelli della romanità. Dapprima fù uno scontro dai toni accesi, una vera e propria guerra ideologica, nella quale ai modelli della cultura del pane, del vino e della città si contrapponeva l'esaltazione della carne, della birra e dei cibi selvatici della foresta, posta al centro degli interessi quotidiani.
Una delle differenze fra struttura romana e barbara (germanica in generale) è che per i romani il rapporto giuridico era a due: liberi e schiavi; per i barbari è a tre: liberi, aldii e servi. Gli aldii sono servi liberati che però non possono abbandonare il padrone, a loro era affidato il lavoro artigianale. Complessa è anche la questione della proprietà della terra; secondo recenti studi i barbari eliminarono i proprietari fondiari romani che si opponevano all'espropriazione del suolo.
La conseguenza fu che la terra è semi abbandonata a prato aperto o a bosco.
Il disfacimento dell' Impero Romano allontanò dalla scena della storia il patriziato e le sue degenerazioni gastronomiche, cancellati dalle invasioni barbariche e dalle conseguenti carestie che furono endemici per oltre un millennio.
Non cosi il Porco.
Tornò ad essere una delle più fide risorse dei villaggi e delle campagne, stremate economicamente anche da un pesante prelievo di decime e altri tributi.
Nelle foreste, grandi branchi di maiali, sorvegliati dai porcari, vagabondano, cominciando ad assomigliare al cinghiale con cui spesso si accoppiano. Non è quindi un caso che il maiale divenga una chiave di volta nell'alimentazione. Dalla civiltà dell'olio e dell'olivo si passa alla civiltà della carne e dello strutto. Il successivo processo di integrazione amalgamò le due culture, per dar vita ad un nuovo modello alimentare, nel quale si inserirà anche quello cristiano. Ma cerchiamo ora di comprendere come il nostro maiale si è inserito nelle nostre regioni del nord Italia.

Mattiussi( primo a destra) ,colomba,degano,fabbro,<br>marinig,scorsone, Roma 2003
Mattiussi( primo a destra) ,colomba,degano,
fabbro,marinig,scorsone, Roma 2003

Alcuni studiosi ritengono che il maiale fosse presente nell'alimentazione delle popolazioni della Pianura Padana sin dall'età del bronzo, collocabile tra il 2000 e il 700 a.C. e molte testimonianze attestano la presenza del maiale in questa regione.
Nel Piacentino è stato trovato un ciondolo di bronzo, di epoca romana, che raffigura un maialino con la coda arrotolata all'insù e le zampe anteriori arrotolate ad anello. Sembra che si tratti di un amuleto che veniva posto al collo dei ragazzi per propiziare loro una buona salute. Altre testimonianze si possono vedere nei mosaici pavimentali dell'Abbazia di S. Colombano, risalente al 12° secolo. Vi sono raffigurati i lavori della campagna nelle varie stagioni, nel mosaico illustrante il mese di Dicembre è rappresentata l'uccisione del maiale con il successivo trattamento delle sue carni.
Gradualmente nella cucina derivata dalla macellazione del maiale, ritornano in auge i sanguinacci e le gelatine, preparazioni per le quali si utilizzano le parti deperibili dell'animale. Il loro consumo avrà una lunga consuetudine nel tempo, come ci attesta il nobile fiorentino Giovanni del Turco nel suo "Epulario", scritto nel 600 (non 1600. ma 6 secoli d.C) in cui ci elenca varie ricette di "migliacci" di porco da preparare con sangue insaporito con zucchero e cannella e scriveva anche di salsicciotti ottenuti con carni macinate di "gambucci e orecchie" mentre con macinato di piedini e orecchie insaporito con lauro e spezie, insegnava a fare gelatine. Inoltre dava consigli per preparere frittelle grasse ottenute dal fegato di porco e una ministra di ceci e cotiche, condita con una buona pestata di lardo e insaporita con menta, pepe e zenzero.
In queste ricette, dei primi secoli verso il mille, le spezie sono abbinate a erbe profumate, attuando, cosi, un lento e graduale passaggio di sapori.
L'uso delle spezie, che era stato appannaggio dei ricchi che avevano innondato i cibi di cannella, pepe, chiodi di garofano, noce moscata, zafferano e zenzero, andrà verso un lento declino giacchè l'apertura di nuove rotte commerciali per l'Oriente, verso l'anno mille, ridimensionerà il loro costo. Da questa variazione, il concetto di lusso verrà trasferito verso le primizie dell'orto e del frutteto, mentre per dare sapore ai condimenti si utilizzeranno le erbe aromatiche quali: timo, maggiorana, anice, aglio, rosmarino e prezzemolo; erbe da sempre utilizzate dal popolo soprattutto dove e quando crescevano spontanee.
Nel 1506 Vincenzo Tanara, il maggiore estimatore del porco tra i moderni scrittori di gastronomia nel "Economia del cittadino in villa" esalta le qualità della carne suina elencando ben 110 maniere di farne vivande.
Al variare dei condimenti in cucina, dalle spezie alle erbe aromatiche, ha inizio anche l'epopea degli "chef" francesi che finiranno con l'appannare il prestigio dei nostri grandi cuochi. Nel 1700 truogoli e profumi in cucina parleranno francese, ananas e piedini di porco convivono gomito a gomito e il centro dell'arte culinaria diventa Parigi. Nei menù il prosciutto diventa jambon, la lombata di ventre diventa carrè e il porcello da latte sarà preparato alla maniera del marchese di Bechemel. Il maiale sarà accompagnato con le erbe aromatiche quali: semi di finocchio, coriandolo, menta, mele e ruta, verrà cotto nel burro e miele, si infarcirà con maccheroni e si ingentilisce con cannella e pistacchi. Verrà servito al sapore di mela cotogna e ci sarà perfino chi lo infarcirà con petti di capitone ed erbette per poi presentarlo su uno "specchio" di salsa di acciughe e pistacchi.
Prima di affrontare il discorso finale sulle "prelibatezze", cioè sulle varie forme per la conservazione delle carni suine per renderle usufruibili tutto l'anno, mi sembra utile parlarvi di un rito che si svolgeva a casa di mia nonna in Friuli, quello de:


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