Il rito dell' uccisione del maiale.
Era un'avvenimento importante nel succedersi dell'anno agricolo, a testimonianza
dell'importanza primaria del maiale per la famiglia contadina in Friuli, come in altre regioni italiane, dato l'uso delle
sue carni dall'antipasto al dolce.
Ora vi racconterò il rito dell'uccisione del maiale, come si svolgeva a casa di mia
nonna. Tutto aveva inizio nella stagione d'autunno inoltrato, che era il periodo propizio per "purcità" (per uccidere il
maiale) secondo il vecchio proverbio "Sant'Andree il purcit su le bree" (a Sant'Andrea -il 30 novembre- il maiale sulla
tavola)
La vigilia ed i preparativi per il giorno fatidico erano, a dir poco emozionanti, e a mio avviso perfino il
povero maiale si accorgeva che era giunta la sua ora.
Stavano ad indicare la fine vicina, alcuni comportamenti della
persona che lo accudiva giornalmente: Il porcile pulito e lavato a dovere il "brear" (Il tavolaccio) dove il maiale dormiva
al riparo dei reumatismi che gli avrebbero causato un probabile azzoppamento e quindi una fine antecipata. Ma l'avvenimento
che lo avrebbe certamente allertato era l'improvvisa visita del norcino, chiamato da mia nonna, per stimare il suo peso;
dato determinante per valutare l'occorrente da acquistare: budella, sale, pepe, spezie ecc.
Il norcino prescriveva anche
la dieta affinchè durante il trapasso e l'apertura del ventre dell'animale, le carni non venissero in contatto con gli
escrementi, il "paston" era costituito da un impasto formato da acqua, siero, semola, zucca, foglie di verza e qualche
piccola patata, poi il tutto veniva bollito, per qualche ora nel "cjalderon" .
Già da queste "novità" rispetto al solito
tran-tran quotidiano, il maiale percepiva qualcosa nell'aria a tal punto che, durante la notte, era irrequito, grugniva
forte, spostava col muso il pesante truogolo, per infilarlo nella fessura della porta.
Arrivava l'alba fatale, ed io
ero molto emozionato per i tanti motivi che questo avvenimento, tanto atteso, poteva offrirmi, tra i quali il più
importante era il non dover andare a scuola, poi il mangiare la bistecca del maiale e i sott'aceti e i sott'oli e ai vari
dolcetti che mia nonna aveva comperato per l'occasione. dato che a pranzo si fermava anche il "purcitar"(il norcino) e
quindi si doveva fare bella figura.
Dunque da tempo ero sveglio e con lo sguardo vigilavo lo scorrere delle lancette
della sveglia, di modo che alle cinque e mezza, prima che si alzasse mia nonna, fossi pronto.
Iniziava cosi quella che
oggi ricordo come la più emozionante giornata del ultimo anno passato in Friuli; vedevo la brina, causata dalla gelata
della notte e sentivo lo scricchiolio dei miei passi sul terreno e sull' erba mentre raggiungevo la "cjardere" (la caldera)
piena d'acqua sotto cui ardeva, già alto, il "fascinar" ( le fascine) affinchè l'acqua bollisse per l'arrivo del purcitar
(il norcino) previsto per le sette.
Il quale dopo aver messo a punto i suoi attrezzi chiedeva, con l'aria del chirurgo
ai suoi assistenti: "a bolie l'aghe?" (bolle l'acqua? ) a quel punto mia nonna serviva il caffè con la grappa, quest'ultima
in quantità abbondante per riscaldarsi, ed io respirando il forte profumo emanato dalla grappa calda, cominciavo a tossire
nascondendomi dietro un angolo per non essere scacciato.
La cariola e la scaletta di legno erano pronte per il
trasporto del maiale, un richiamo al vicino di casa perchè desse una mano per trascinare il maiale in una spiazzo libero
vicino all'orto, dove il norcino affondava il coltello a mezz'altezza tra le zampe anteriori e il collo, cercando di colpirlo
al cuore
evitandogli cosi una lunga agonia.
Subito, mia nonna era pronta con il "cjadin" (terrina in ferro smaltato) piena di
pane raffermo per raccogliere più sangue possibile, che sgorgava caldo e fumante dalla ferita del maiale. In quel momento
io venivo allontanato, ma sebbene la scena mi infondesse pietà e un senso di tenerezza per il povero animale, come tutte le
cose vietate ai bambini, essa destava in me ancor più interesse, tanto che continuavo a sbirciare seminascosto dal vicino
pollaio.
Il norcino effettuava allora la pesatura dell'animale, alla quale assistevano anche i vicini, se il peso
oscillava tra i 140 e 150 chili, era motivo di orgoglio per aver allevato un'animale che pesava molto e quindi se ne
sarebbero ricavati una grande quantità di prodotti. Trasportato vicino al recipiente dell'acqua calda, mentre io continuavo
a sbirciare, iniziava l'operazione di spellatura sotto l'occhio vigile ed esperto del norcino. persona di comprovata
sapienza nel suo mestiere e degna del rispetto di tutti. Si recuperavano le setole le quali venivano vendute ai fabbricanti
di spazzole; nel frattempo in un angolo chiuso da tavole, al riparo dal freddo, era stato montato lo "spoler" (cucina a
legna in mattoni con piastra in ghisa) cosicchè le carni si amalgamassero meglio. Seguiva la sezionatura de maiale e dalla
schiuma prodotta, si scopriva subito quanto lardo aveva accumulato. Tutto era illustrato dalle dita che il norcino alzava
in alto, man mano che misurava. Al fatidico "Quatri dees di ardiel" (quattro dita di lardo) subito mia nonna serviva a tutti
i presenti, un giro di grappa. Ripreso fiato dai reiterati brindisi, iniziava la pulizia delle interiora e il taglio delle
cotiche, pulite dal grasso che veniva poi utilizzato per miscelare l'impasto del salame, del "muset" (il cotechino) e il
restante grasso veniva cotto, liquefatto, conservato salato e pepato per essere poi impiegato tutto l'anno per friggere, per
condire caldo il radicchio, usato al posto dell'olio che, invece, bisognava comperare.
Il grasso veniva anche utilizzato
per lucidare gli scarponi o "da che ca drece" di solito una nonnina del paese dalle mani sante, atte a massaggiare la parte
del corpo dolente per una distorsione. Alla fine di tale lavoro, a occhio e croce erano le dieci del mattino, la scena era
invasa dall'odore della cipolla che soffriggeva assieme al fegato nella "fersorie" (padella di ferro) e in una piccola pausa,
due fette di polenta con un po di fegato e cipolla con due bei bicchieri di vino, rinfrancavano gli adulti.
Se il vicino
per atteggiarsi ad intenditore, scorgendo un pò di fioretta nel bicchiere, diceva a mia nonna: " a là un poc di flors chel
vin chi" (cià un po' di "fioritura" questo vino) mia nonna replicava: "a no là nissun potacjo" (non ha nessun aggiunta per
dire che il vino era genuino). Alla mezza compariva mia nonna che, con garbo, rivolgendosi al norcino gli chedeva: "metio su
le paste? "( metto su l'acqua per la pasta?)
Con lo sguardo severo, gli occhi sopra il bordo degli occhiali, lui annuiva
facendole capire che avrebbe deciso lui quando sedersi a tavola, visto che stava eseguendo un lavoro delicato il taglio
della "brusadule" (braciola tonda del lombo o del filetto)
due per l'esattezza, una per noi e una per il "plevan" il parroco.
Poi finalmente c'era la
sosta pranzo, un'ora esatta, ma io quasi perso in una imminente pennichella, dopo il pasto
luculliano venivo sollecitato dal norcino, ad alzarmi: "Carluti" (Carletto) và a casa di tizio o di caio ( di solito
in fondo al paese) a prendere la misura dei salami , in modo che io possa regolarmi" era un mezzo per allontanarmi mandandomi
a bussare alle porte della via. Quando io tornavo con il broncio, per essere caduto nella burla, trovavo mia nonna intenta
ad esaminare il frutto della laboriosa giornata: 35 kg. di cotechini, 45 kg. di salami, 5 soppresse 13 kg. e poi la
salsiccia 5 kg. la salsiccia nera 10 kg., e poi i pezzi pregiati: due capocolli, due pancette, due salami di costa da
conservare per le grandi occasioni.
Il consumo del maiale seguiva sempre un iter cronologico della stagione: Ossocolli
alla raccolta del frumento, salami di costa a fine estate, pancetta, più ricca di grasso, agli inizi del freddo con la
salsiccia e i cotechini a fine anno.
Era l'autunno del 1938 l'ultima volta che mia nonna teneva il maiale, pochi mesi
dopo sarebbe rimasta sola nella grande casa di Basiliano. Mio padre, mia madre ed io saremmo venuti a Roma ad iniziare una
nuova vita.
purcjtà da magnàs, |
Ma ritorniamo al tema della nostra serata, perchè è giunto il momento di parlarvi del
- 17 gennaio,
che è il giorno che dà inizio al nostro carnevale, ed è anche il giorno in cui si festeggia S.Antonio abate, che proprio
in quella data mori nel 356 d.C. all'età di 105 anni essendo nato in Egitto nel 251 o 252.
Il santo era patrono dei
macellai, dei norcini, dei mercanti e degli allevatori di maiali,
oltre che dei pittori per via delle setole con cui si
pruducono i pennelli e che erano prese, come abbiamo già detto, ai maiali. S. Antonio è sempre stato invocato, dai contadini,
oltre che come protettore degli incendi anche contro le epidemie che colpivano sia l' uomo che gli animali. Per questo le
celebrazioni in suo onore sono caratterizzate dall'accensione di grandi falò, detti comunemente i fuochi di s. Antonio.
Questo termine viene anche usato comunemente per indicare l' herpes zoster, ed è derivato, nella lingua volgare, dall' antica
maniera di chiamare la peste "fuoco sacro".
Infatti s. Antonio, nel XI secolo in Francia, durante un'epidemia, compiendo
un miracolo, salvò molte persone. Tanto che, ancora oggi, il fuoco prelevato dai falò accesi in suo onore è oggetto di
devozione. In alcuni comuni del Friuli, proseguendo una usanza medioevale, si usa allevare un maialino, detto di s.Antonio,
che una volta giunto al giusto momento dell'ingrasso, viene venduto ed il ricavato viene utilizzato per sostenere le spese
dei festeggiamenti in onore del Santo.
Anche i monaci Antoniani sacralizzarono il maiale, connesso alla figura
dell'anacoreta.
Questi monaci che, inizialmente, erano di origine orientale si suddivisero in varie congregazioni,
anche in occidente, dove gli Atoniani di Vienna e del Delfinato furono incorporati nel 1778 nell'ordine di Malta.
Gli Antoniani, ordine di cavalieri erranti, congregazione con forte componente laica, poi strutturati in case, rette da
un precettore, erano dediti soprattutto all'arte medica, tanto che dalle loro fila era scelto il medico privato del Papa.
I loro conventi, o case, erano costituiti da ospedali nei quali si curavano soprattutto le malattie infettive e l'epilessia.
Accanto a questi ospedali vi era una porcilaia, perchè dal lardo essi ottene- vano gli unguenti e i rimedi per curare il
fuoco di Sant'.Antonio, o erpes zoster.